Eroe di guerra

L'uomo

Luigi Ferraro prese parte al 2° conflitto mondiale come Volontario. Ammesso al Corso Ufficiali di Complemento, nominato Sottotenente, fu assegnato al 20° Reggimento Artiglieria. Passò poi a disposizione della Milizia Artiglieria Marittima (Milmart) dipendente dal Ministero della Marina e nel 1942 ebbe il comando di una batteria costiera antinave. Fece domanda e fu ammesso alla Scuola Sommozzatori di Livorno e, ottenuto il brevetto, passò alla X MAS nel Gruppo "Gamma" del quale divenne poi Vice-comandante ed Istruttore.

Nel maggio 1943 venne inviato in Turchia con l'incarico di compiere azioni di sabotaggio contro mercantili nemici. Da informazioni pervenute era stato rilevato che questo paese stava fornendo del cromo, materiale d’importanza bellica, all’Inghilterra. Fu quindi deciso di ostacolarne l’approvvigionamento marittimo e, considerando le caratteristiche geografiche del porto di Alessandretta (Iskenderun), di fronte a Cipro, dove i piroscafi dovevano ancorare in rada a due o tremila metri dalla costa, si pensò che un incursore potesse trasportare dei bauletti esplosivi fino alle navi che avrebbe poi minato.
Si optò quindi per l’impiego di un uomo "gamma" e l’uomo selezionato per quest’operazione fu Luigi Ferraro. Senza dare  nell’occhio, venne mandato in Turchia sotto falsa copertura diplomatica con alcune valigie piene di ordigni esplosivi per assumere la carica di funzionario presso il Consolato italiano di Alessandretta. Iniziava l’Operazione Stella, nel gergo cifrato delle missioni segrete.                             
Fra giugno e agosto 1943 condusse quattro azioni di sabotaggio contro i mercantili nemici, nei porti di Alessandretta e di Mersina. Nel primo porto applicò, la sera del 30 giugno, due “bauletti” esplosivi alla chiglia del piroscafo greco Orion di 7.000 tsl, carico di minerale di cromo, che affondò il mattino successivo a poche miglia dal porto. Il 9 luglio, operando dal vicino porto di Mersina, ripetè l'operazione sul piroscafo Kaituna di 10.000 tsl, il quale subì ingenti danni e fu portato ad incagliarsi sulle coste di Cipro per evitarne l'affondamento. Nuovamente a Mersina, Ferraro ripetè l'azione, la sera del 30 luglio, sul piroscafo britannico Sicilian Prince, che non ebbe a subire conseguenze perché una ispezione alla carena consentì ai sommozzatori britannici di rimuovere i bauletti esplosivi.
Migliore sorte ebbe l'azione effettuata il 1° agosto contro la motonave norvegese Fernplant di 7.000 tsl, carica anch'essa di minerale di cromo ed ancorata nel porto di Alessandretta. La Fernplant affonderà poi nelle acque al largo della Siria.
Queste azioni valsero a Luigi Ferraro la medaglia d’Oro al Valor Militare.

 

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Luigi Ferraro in equipaggiamento leggero
Luigi Ferraro in equipaggiamento leggero
Modello di bauletto con i due morsetti detti “sergenti” originali
Modello di bauletto con i due morsetti detti “sergenti” originali
Morsetto originale
Morsetto originale


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Orion

30 giugno 1943 – Alessandretta - Turchia. L'uomo nuota sul dorso in direzione della nave, ma le braccia le tiene lungo i fianchi, inerti, e avanza muovendo soltanto le gambe distese, alternativamente, proprio come nel nuoto agonistico sul dorso. La spinta delle gambe, potenziata da un paio di pinne di caucciù calzate ai piedi, sopperisce all' impossibilità di servirsi della trazione delle braccia. Un attrezzo segreto, quelle pinne. Sono pesanti quanto basta per tenere i piedi del nuotatore al di sotto della superficie dell' acqua e quindi a evitare sciacquii, e perciò rumori sospetti. Silenzio assoluto e invisibilità totale sono parti essenziali dell' equipaggiamento e dell' armamento dell'uomo arruolato nel Gruppo “ Gamma”.

Gli uomini del Gruppo Gamma della Decima Flottiglia MAS della Regia Marina di problemi ne devono risolvere tanti, suoni non ne possono emettere e di colori ne conoscono uno solo: il nero. Nere sono le pinne di caucciù, nera è la calzamaglia che ricopre tutto il corpo dell'incursore, nero il brandello di rete che ne cela il volto, verdastro il berretto frigio di spessa lana che sorregge la rete. Una maschera subacquea sarebbe impensabile, il cristallo frontale potrebbe riflettere un qualsiasi barlume di luce e lui, nemico invisibile, non sarebbe più tale.

È ancora lontana, la nave, e non ne giunge un suono, una voce; non se ne distingue una luce, anche fioca, che possa aiutare a mantenere la rotta. Ma è troppo vicina perché il Gamma si possa permettere il lusso d'un colpo di tosse, d'un soffio da cetaceo per espellere tutta quell'acqua salata che gli penetra nel naso. Qualcuno, a bordo, potrebbe udire quel rumore tenue e insospettirsi, dare l'allarme, scagliare le lame delle fotoelettriche contro la superficie nera del mare, e poi far cantare la mitragliatrice nelle pozzanghere di luce, per l'incursore non ci sarebbe scampo. Certo, se gli sparassero addosso a raffica, e qualche colpo centrasse uno o magari tutti e due i "bauletti" esplosivi che l'assaltatore ha con sé, la missione del Gamma sarebbe fallita, lui sarebbe morto invano e le azioni che i suoi commilitoni stanno preparando altrove nel Mediterraneo sarebbero scoperte e fermate in tempo dal nemico.

E pedala, pigia sulle sue pinne arma segreta, e rimorchia, verso il bersaglio, i bauletti che deve applicare. Li tiene sui fianchi, belli imbottiti di esplosivo, le braccia appoggiate sopra, per controllarli con le mani e anche per star più comodo; ma sono mantenuti al loro posto da due cordicelle passanti in altrettanti anelli, a loro volta fissati alle spalle del nuotatore con due bretelle che, con la cintura stretta in vita, costituiscono una robusta imbracatura. Sostenuti da appositi galleggianti, i due ordigni gli servono anche per appoggiarsi e riprender fiato ogni tanto.

Alternativamente, nuota su un fianco. Ora quello destro, ora quello sinistro. Per guardarsi intorno, senza mai perdere di vista il suo bersaglio e mantenere la rotta più breve.

Finalmente poche decine di metri d'acqua buia lo separano dall' obbiettivo. L'Uomo Gamma sgonfia un po', attentissimo, i galleggianti dei bauletti. Gli ordigni scompaiono sotto la superficie, ma non affondano, restano a dondolare appena sott'acqua. Può spingere con le pinne soltanto con la forza che basta per avanzare a una velocità pressoché nulla, quella d'un corpo morto alla deriva. Tiene il capo reclinato all'indietro, sotto la reticella gli occhi spalancati nell'acqua buia, è immerso al massimo, agevolato dai bauletti ora leggermente negativi. Fuori dell'acqua solo narici e bocca. L'acqua in bocca la espelle senza problemi. Quella nel naso no. Il Gamma sa che se la soffia fuori il liquido salato gli eccita le mucose e il colpo di tosse è inevitabile. Rimedia inghiottendola. Non c'è altra soluzione. Sa che gli farà venire un' arsura e una sete terribile, e che dovrà tenersele, come dovrà tenersi il freddo, la tensione nervosa, la paura. Mali minori.

Non c'è alcun segno visibile né un suono rivelatore della sua inquietante presenza sotto il mercantile carico di cromo. Con la punta delle dita nude delle mani imbrattate di nero, l'incursore tasta la pancia di ferro della nave, finché non avverte il rigonfio caratteristico della saldatura che indica senza possibilità d'equivoci i bordi sovrapposti di due lamiere. Ora gli basterà distinguere al tatto le giunture lunghe delle lamiere, quelle che indicano l'asse longitudinale della carena, da quelle corte che corrono sull'asse trasversale.

Tastando, palpando, accarezzando la carena, l'Uomo Gamma raggiunge quello che crede essere il centro nave e da qui l'aletta antirollio di dritta. I suoi gesti sono sicuri e rapidi come quelli d'un cieco dalla nascita. Il bauletto è al suo posto, è un involucro cilindrico che contiene dodici chilogrammi d'un esplosivo più potente del tritolo, messo a punto proprio per quell'impiego, e l'incursore lo fissa a un'estremità dell'aletta con due morsetti, i "sergenti". Stringe bene. Le sue mani esercitate fungono anche da chiavi dinamometriche. Estrae dal fodero il coltello acuminato che porta alla cintura, lacera il galleggiante del bauletto. Adesso il secondo, sull'altra estremità della stessa aletta, perché se la nave è munita di paratia stagna longitudinale, la sezione squarciata dalle bombe resterebbe bilanciata e la nave non affonderebbe; invece, provocando due falle su un lato solo dello scafo, uno indietro, l'altro avanti, se ne provocherebbe l'inclinazione e quindi il capovolgimento e l'affondamento. Tutto studiato, tutto calcolato, ogni gesto frutto di riflessione e di concentrazione.

Se gli andrà bene, lo sa, niente lettere di encomio né articoli sui giornali. Se gli andrà male, anche questo lo sa, può finire in campo di concentramento con un PW, Prisoner of War, impresso sulla giubba; oppure, se lo beccano ... non lo fanno prigioniero, lo fucilano. Lo prenderebbero per una spia,  per un sabotatore, si, ma civile. Da mettere al muro senza processo.

Anche la seconda carica è piazzata. Esploderanno e la nave colerà a picco fuori dalle acque territoriali, il nemico penserà all'attacco di un sommergibile, perché a far deflagrare l'esplosivo provvederà un congegno a tempo e spazio, un'elichetta che comincerà a girare soltanto quando la nave avrà raggiunto la velocità di cinque nodi liberando il fermo di un orologio che a sua volta, trascorso un numero determinato di ore, azionerà il detonatore.

Missione compiuta.

Non può dirlo ancora, c'è da ritornare allo stabilimento balneare, la base segreta, senza farsi scorgere da nessuno. Ora pinneggia silenzioso in direzione della spiaggia, un miglio e mezzo abbondante dalla nave alla fonda che tra qualche ora sarà a fondo.

Finalmente prende terra, silenzioso come uno straccio bagnato. Non ha più i bauletti con sé e procede spedito e invisibile, la calzamaglia nera, la reti cella ancora sul volto. Sono le tre del mattino e in giro finalmente non si vede anima viva.

L'Uomo Gamma s'asciuga con l'accappatoio lasciato nella cabina, si riveste, prende la strada per il Regio Consolato d'Italia. L’attende trepidante Giovanni Roccardi, agente D65 del SIS che gli fornisce assistenza, l’unico al corrente della vera identità di Ferraro. Missione compiuta. Ora può dirlo. C'è anche il console ad aspettarlo. L'agente segreto solo a questo punto l'ha informato sulla vera personalità e sulla natura dell'incarico di quello strambo impiegato. Ora che il console sa, lui potrà restare a dormire qui. Ormai sono le 4 del mattino e non è il caso di raggiungere il suo alloggio nel convento dei Carmelitani dove l'ufficiale del servizio segreto della Regia Marina lo ha sistemato perché più sicuro d'una camera d'albergo e i monaci sanno di avere a che fare con un impiegato civile del consolato italiano di Alessandretta e non stanno certo a imporgli orari da rispettare. D'altra parte, cosa può fare di male uno come lui, questo giovanotto, Luigi Ferraro, genovese ma che nemmeno sa nuotare, che invece di andare a far la guerra è riuscito a imboscarsi dietro una macchina da scrivere in un consolato sperduto d'una cittadina d'un Paese neutrale. "Raccomandato di ferro", aveva pensato tra sé e sé il padre guardiano, quando se l'era visto davanti per la prima volta.” (1)

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Le pinne utilizzate nell’attacco alle navi
Le pinne utilizzate nell’attacco alle navi
Berretto di lana che sorregge la rete di mascheramento
Berretto di lana che sorregge la rete di mascheramento
Galleggiante originale con modello di bauletto
Galleggiante originale con modello di bauletto
Le otto sicure dei bauletti utilizzati nelle azioni
Le otto sicure dei bauletti utilizzati nelle azioni
L’orologio Panerai realmente utilizzato da Ferraro
L’orologio Panerai realmente utilizzato da Ferraro
Un esemplare di autorespiratore utilizzato dai Gamma
Un esemplare di autorespiratore utilizzato dai Gamma
Bussola Panerai e Stringinaso utilizzati nelle azioni e donati da Ferraro al Comsubin che li conserva nella sua Sala Storica
Bussola Panerai e Stringinaso utilizzati nelle azioni e donati da Ferraro al Comsubin che li conserva nella sua Sala Storica


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Kaituna

La seconda azione si svolge nel porto di Mersina il 9 luglio. Alle 22,20 Ferraro scende in acqua e inizia a nuotare in direzione del mercantile Kaituna alla fonda a due-tre chilometri di distanza. All'una di notte è a una quarantina di metri dal dritto di prora dell’obiettivo. Sulla superficie dell' acqua galleggia avvicinandosi lentissimamente alla nave la reticella che nasconde il suo volto: un ciuffo d'alghe brune. Quando il suo corpo incontra l'acciaio del bulbo, l'incursore resta immobile: deve recuperare, rallentare il battito cardiaco, il ritmo della respirazione. Riprende ad andare. Ora il ciuffo d'alghe brune rotola lentamente scivolando sulla fiancata di dritta della nave.

 In corrispondenza con l'aletta antirollio di quel lato si ferma, lentamente scompare sott' acqua. Ferraro ha iniziato a respirare l'ossigeno puro del suo ARO e s'è immerso. Si porta dietro una sensazione inquietante, di aver rilevato, al tatto naturalmente, la presenza d'una verrina, quel cavo che viene fatto passare da una murata all' altra sotto la chiglia, e poi fatto scorrere, da prora a poppa e viceversa, per controllare che non vi siano corpi estranei, magari cimici o mignatte o altre diavolerie escogitate dal nemico. L'incursore trova subito l' aletta, si porta verso la parte posteriore, fissa il primo bauletto, ne squarcia il galleggiante, estrae la sicura della spoletta. E uno. Ora, senza perdere il contatto con l'aletta, si dirige verso la parte anteriore, dove va piazzato il secondo bauletto. Maledizione! La verrina c'è. Ferraro è perplesso, incerto, preoccupato. Ma decide di piazzare la seconda carica. La fissa per bene con i 'sergenti', compie tutti i gesti necessari per mettere il bauletto in condizioni di 'pronto all'esplosione'. Ma è colto dal dubbio: "e se li togliessi, i bauletti? Se li scoprissero con la verrina ... " Controlla il 'ponticello di scorrimento': ne ha collaudato lui stesso la funzionalità, è un dispositivo ideato e costruito proprio per ingannare le verrine del nemico: "ma no ... funzionerà, non li troveranno mai ... "
Abbandona l'aletta, si porta al centro dello scafo, segue l'andamento della chiglia fino al dritto di prora. All’1 e 40 torna a respirare l'aria di mare, ripete la "passeggiata" d'una quarantina di metri per allontanarsi a 'nuoto in piedi' dalla verticale della nave insidiata. Il suo volto è ritornato ad essere un cespuglio d'alghe brune che galleggia pigro sullo specchio dell' acqua. E finalmente, leggero, si distende e nuota il più veloce possibile.
Alle 3 del mattino Ferraro è di ritorno alla spiaggia.
Il Kaituna, in seguito all’esplosione dei bauletti, verrà gravemente danneggiato e, per evitare l’affondamento, portato ad incagliarsi sulle coste di Cipro.
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KAITUNA
KAITUNA


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Sicilian Prince

L'attacco al terzo obiettivo: il Sicilian Prince, bandiera britannica, 4.500 tonnellate viene portato nella notte del 30 luglio.
La nave è lontana, più delle altre: almeno quattro chilometri al largo. Ferraro ne ha percorso uno quando sente un soffio, uno sbuffare, un gorgoglio leggero, seguito dallo spostamento della massa d'acqua nella quale l'incursore è immerso. Quell'indesiderato e non identificato compagno di viaggio di tanto in tanto ricompare in superficie e respira rumorosamente. Poi d'improvviso, un po' prima di entrare nella 'zona pericolo', nel raggio visivo e uditivo dell' equipaggio della nave, la bestia sconosciuta s'allontana, intorno tutto è silenzio e buio.
L'incursore ricomincia a nuotare verso il suo obiettivo, ha già perso troppo tempo, ma è in affanno. Si appoggia per qualche istante ai galleggianti dei bauletti esplosivi per riprender fiato.
Alle 2 del mattino è a 30-40 metri dal dritto di prora del piroscafo. Raggiunge la nave scivolando con movimenti impercettibili sulla superficie del mare. Il suo corpo, inguainato nella calzamaglia nera, è assolutamente invisibile, i bauletti galleggiano sotto di lui a mezz' acqua. Scivolando lungo la fiancata di dritta raggiunge la zona dov'è l'aletta antirollio. Si immerge, fissa prima un bauletto verso poppa, poi l'altro verso prua, sistema il ponticello ("Qui la verrina non c'è, ma potrebbero sempre passarla dopo"), come aveva fatto nell'attacco al Kaituna raggiunge la chiglia della nave, la segue al tatto fino a prora, emerge, si allontana dallo scafo in nuoto verticale e finalmente parte veloce, silenzioso, invisibile verso la spiaggia.
Sono le 2.30 del mattino. È in acqua da quattr'ore. Tocca terra alle 4. Trova su di un pontile, secondo gli accordi, il sacco lasciato da D65. Vi ripone l'attrezzatura e con grande circospezione si dirige verso la porta di servizio del Consolato, lontano non più di dieci metri dal mare.
(1)
Gli sforzi di Ferraro tuttavia in questo caso risulteranno vani perché il Sicilian Prince prima di prendere il largo verrà ispezionato da sommozzatori inglesi che troveranno i bauletti e li rimuoveranno.

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Fernplant

Meno di due giorni dopo, proprio ad Alessandretta, una magnifica opportunità di utilizzare al meglio gli ultimi due bauletti esplosivi rimasti: a 2.000 metri dallo stabilimento balneare è ancorato il Fernplant, un piroscafo norvegese di 127 metri fuori tutto, da 5.274 tonnellate di stazza e 7.000 di portata, che sta caricando 6.000 tonnellate di minerale di cromo.
La mezzanotte è passata da venti minuti quando Ferraro può passare all'attacco.

Al Fernplant è accostato un mercantile turco carico del minerale di cromo da trasbordare sul piroscafo norvegese. Le due navi appaiono illuminate a giorno: anche la fiancata destra è illuminata e a circa 4 metri dall' estremità della prora due potenti riflettori, uno per lato, gettano dall' alto in basso i loro fasci di luce sullo scafo e sull' acqua. Ferraro, tenendosi a debita distanza, comincia a girare attorno al bersaglio nella speranza di individuare lungo murata un punto meno illuminato che gli permetta l'accostamento. Ma invano: da una batteria di sette riflettori per lato si rovesciano cascate di luce sulle fiancate, sul mare. L'unica è tentare l'accostamento di prua: in direzione del dritto la luce è un po' attenuata, e poi è meno probabile che li ci sia gente.
Sono le 2 del mattino quando 1'incursore è sul dritto di prora, il suo punto d'attacco prediletto. Riemerge per pochi istanti là dove nessuno può scorgerlo. Guarda in alto, getta uno sguardo tutt'intorno, finalmente passa alla respirazione dall'ARO, torna a immergersi lungo il dritto, conserva con le dita nude il contatto con la chiglia. Ora usa le braccia spalancate come un compasso per misurare approssimativamente la distanza percorsa, e quando ritiene d'essere a mezza nave si allontana dalla chiglia per dirigersi dove dovrebbe essere l'aletta antirollio di dritta. La luce abbacinante dei riflettori che fino alla sua immersione ha costituito il pericolo maggiore ora gli è benigna: sott'acqua non c'è buio totale ma un diffuso chiarore che aiuta 1'Uomo Gamma a discernere la sagoma dell' aletta destra.
Piazza il primo bauletto a proravia dell' aletta, stringe i 'sergenti', sistema il 'ponticello di scorrimento', sfila la coppiglia che tiene ferma l'elichetta, squarcia col coltello i galleggianti; si sposta verso la zona posteriore dell' aletta, ripete tutta la procedura con gesti sicuri. Tutto fatto. Alle 2.30 torna a uscire da sotto la nave dallo stesso punto in cui si era immerso.
La motonave Fernplant affonderà poi nelle acque al largo della Siria.

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Fernplant
Fernplant


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Dopo l'8 Settembre

Perduta la guerra, Ferraro ne continuò un'altra, fino alla sconfitta finale nel 1945, senza uccidere mai nessuno, senza mai sparare un colpo contro altri italiani e anzi, d'accordo coi partigiani che in teoria erano suoi nemici, salvando uomini e importanti insediamenti industriali dalla rappresaglia nazista.
Il Gruppo “Gamma” “Licio Visintini” cui Ferraro apparteneva non si sciolse l’8 settembre 1943 e passò interamente alla R.S.I. Dal novembre 1943 fu a Valdagno (Vicenza). Nel gennaio 1945 il «Gruppo Gamma» fu suddiviso in diverse Squadre, che avrebbero dovuto operare al di là delle linee per effettuare sabotaggi a mano a mano che il fronte avanzava. Nell'aprile del 1945 alcune di queste Squadre erano già dislocate nelle zone in cui si prevedeva che dovessero operare. A Valdagno era rimasto il Comando con Ferraro ed una quarantina di uomini. Il Comandante Wolk aveva ricevuto altro incarico e si era trasferito a Venezia.
Nella zona agiva una brigata partigiana denominata «Stella », che non attaccò mai gli alloggiamenti dei «Gamma », ma anzi stabili con Ferraro ed i suoi uomini un modus vivendi, richiedendo spesso l'intervento diretto del Comandante della «Decima» nei riguardi dei tedeschi per evitare inutili distruzioni e morti. Racconta in proposito Ferraro:

«Il 26 aprile arrivarono il segretario comunale e due responsabili del C.L.N. dicendo: "I poteri sono passati dalla Repubblica Sociale ai C.L.N.; avremmo bisogno di lei [ ... ] c'è una colonna tedesca che vuole far saltare il ponte e gli stabilimenti". Risposi che io ero e rimanevo la più alta autorità militare del paese, per cui, per salvare il ponte e gli Stabilimenti Marzotto, sarei intervenuto personalmente per far defluire la colonna tedesca da Valdagno, senza difficoltà però da parte partigiana.
Andai a trattare. La colonna voleva passare attraverso Valdagno ed io volevo garanzie da parte del C.L.N. per impegnarmi con i tedeschi.
In divisa della "Decima", il giorno dopo la liberazione andai dunque in paese. Cercavo dei capi partigiani validi, ma ognuno asseriva di essere un capo partigiano. Finalmente, nel centro del paese di Valdagno trovai due tipi che mi davano maggiore affidamento. Stessi discorsi, stesse promesse.
Tornato poi dal Comandante della colonna, un capitano tedesco e fornitogli le assicurazioni avute, questi mi disse: "Lei deve seguirmi". Io ero in motocicletta. Il capitano, con la pistola puntata su di me, mi segui insieme con la colonna. Tutto andò bene e Valdagno fu superata senza conseguenze. Fuori del paese, salutai e me ne tornai indietro.
Questa storia è durata una quindicina di giorni. Una volta, una colonna tedesca, invece di fermarsi nei pressi di Valdagno, decise di fermarsi a Cernedo, 5 chilometri prima della cittadina. Arrivò un ufficiale con un interprete di Trieste, dicendo che intendevano prendere un certo numero di ostaggi. La discussione durò parecchie ore. Dalla boscaglia, nel pomeriggio, parti un crepitio di fucileria. Ci fu un enorme allarme fra i tedeschi. Un maresciallo mi puntò un mitra sul petto; glielo strappai di mano e mi misi ad urlare imprecazioni contro di lui e contro tutti. Giunse l'ufficiale di corsa, un maggiore, e con tono dimesso mi disse che era disposto a credermi, ad accettare i miei suggerimenti. "Andate per Vicenza e prendete la valle di Schio".
Mi seguirono, il maggiore con tutta la colonna. Li precedevo, come al solito, in motocicletta. Poi ci salutammo. All'ultimo momento, il maggiore mi disse: "Lei resta, noi dobbiamo andare [ ... ] mi regali la moto, serve più a noi". Gli regalai la moto, poi mi resi conto che mi trovavo a 5 chilometri da Valdagno ed ero solo con un marinaio. A Valdagno ero addirittura protetto dal C.L.N., ma lì no di sicuro. Andammo quindi nel fiume e ritornammo in città per quella via.
Intanto, giornalmente mandavo via, uno ad uno, i marinai del Gruppo, muniti di salvacondotto della brigata "Stella". Rimasi alfine solo con alcuni sottufficiali. Un giorno, per evitare il passaggio dei tedeschi, i partigiani mi dissero che volevano far saltare il ponte, ma io mi opposi. Sarebbe stato un gravissimo errore. "Lo mino io stesso - dissi loro - ma salterà solo se sarò tirato per i capelli". Andai con i miei sottufficiali e minai il ponte, tenendomi pronto a far esplodere le mine. "Se i tedeschi mi passano per le armi - ordinai al C.L.N. - procedete al brillamento, altrimenti resta tutto così". I tedeschi passarono ancora ed il ponte fu salvato.
In un dato giorno, nella seconda metà del mese di maggio, qualcosa cambiò nei miei confronti. Il Comando della brigata "Stella" mi fece sapere che aveva deciso di trasferirmi a Valdagno di Sopra, dove c'era una marmaglia pericolosa. "Niente affatto - risposi - non ho niente in comune con quelli. Mi avete cercato, mi avete chiesto di collaborare e l'ho fatto. Se è cosi, allora rientro in caserma". Altro cambiamento. Allora parlarono di salvacondotto: doveva essere la conclusione logica.
«Tutto il materiale della Marina lo inviai a La Spezia, dove fu regolarmente consegnato. Il restante materiale lo consegnai all' Amministrazione comunale. Alla fine, rimasi veramente solo, dopo avere mandato a casa il personale gradualmente. Alla fine di maggio, quando tutto fini, ci siamo abbracciati e salutati e sono partito per Bergamo ove risiedeva la mia famiglia.
Quando tutti gli uomini erano già alle loro case, cominciai a sentire notizie che ne avevano arrestato uno qua, uno là. Andai allora a Venezia al Comando alleato per fare le mie rimostranze. Da quel Comando furono inviati dispacci a tutte le polizie, per cui gli arrestati vennero immediatamente rilasciati».

Il 27 maggio giunsero a Valdagno il Capitano di Corvetta Lionel Crabb, famoso «uomo-rana» della Royal Navy ed il Maggiore Antony Marzullo, della U.S.Navy, che proposero a Ferraro una collaborazione con le forze navali alleate nella guerra contro il Giappone. Ferraro ringraziò per l’offerta ma rifiutò.
Tratto da “Decima Flottiglia Nostra” di Sergio Nesi – Ed. Mursia

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La dichiarazione firmata dai Responsabili della Brigata Stella nella quale riconoscono l’opera di mediazione svolta da Ferraro
La dichiarazione firmata dai Responsabili della Brigata Stella nella quale riconoscono l’opera di mediazione svolta da Ferraro


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S. Giovanni Bianco

SAN GIOVANNI BIANCO - ESTATE '45. - "Giuro, ada chel là!" all'esclamazione del compagno i nostri sguardi scattano all'unisono nella direzione del suo. Cribbio, sul pilastro della sponda opposta c'è ritto l'"Uomo mascherato". Prima, fuorché nei fumetti, chi s'era imbattuto in un sub? Nemmeno l'estensore di queste righe, nonostante la prolungata dimora a San Remo a motivo dell'impiego paterno, era andato più in là del palombaro del pontone di drenaggio del porto. Dalla figura atletica e dai pantaloncini blu riconosciamo quel giovane signore con pizzetto biondo-castano che poco prima c'è passato accanto, scherzando col frugoletto biondo che gli sguazzava a due passi. Questi ora gli parla dal pilastro sulla nostra riva. Circospetti, noi ci si muove verso il ponte. Più che gli strani occhialini che gli coprono quasi interamente il viso e quelle enormi zampe d'anatra in cui ha infilato i piedi, dell'equipaggiamento del misterioso personaggio, c'incuriosisce l'aggeggio che impugna. Di certo si tratta di un'arma, ma di così non ne abbiamo viste mai. Essì che, fra Wermacht, miliziani varii della Repubblica Sociale, partigiani eccetera, a fucili e mitra ci siamo fatti l'occhio. Questa qui, di primo acchito, rammenta una "machine-pistole", più lunga ed esile però, senza il
caricatore e con una specie di "pirù" (forchetta) alla bocca della canna.
Il signore espirò ed inspirò profondamente. E si calò in acqua. Battute, ammiratissimo da noi che al massimo ce la cavavamo "a cagnì" e "a spada", alcune bracciate in perfetto "crawl", s'immerse, prendendo a nuotare in direzione della diga dell'"Orobica". Risalendo il greto senza più titubanze, ne seguivamo, col biondino, le evoluzioni controcorrente. Lo scorgemmo bloccarsi un attimo e armeggiare rapido col suo moschetto-balestra. Poi riaffiorò e noi rimanemmo stupefatti alla vista di una bella trota penzolante dal dardo forcuto che l'aveva trapassata. Sceso di nuovo in acqua, fece un'altra preda. Tornato a riva, qualcuno del capannello, che s'era andato infoltendo attorno a noi, gli suggerì di fare una battuta nel profondo stagno pescoso allargantesi sotto lo sfioratore. Rispose,
sorridendo, che per quel giorno bastava.
In quel "fongarù" si tuffò – così mi raccontarono più tardi gli amici presenti all'evento – di lì ad alcuni giorni: per ripescare trote e temoli, una mezza dozzina, rimasti incagliati in un anfratto del fondale roccioso, sbattuti lì dallo scoppio di un ordigno a carburo (ma, secondo taluno, trattavasi di bomba a mano). A lanciarlo era stato uno di noi, dei più grandi della banda. Risalito in superficie, il munifico fiocinatore, tenendo i pesci infilati in un rametto di salice, s'avvicinò al bombarolo, e "Tò – gli disse – portali alla tua mamma". Il ragazzo s'allontanò estasiato con l'argenteo bottino: perdurava all'epoca, severo, il razionamento annonario. Che l'"Uomo mascherato" fosse il capitano di corvetta Luigi Ferraro lo si seppe anni dopo. Confusamente, allora, diffusa da "radio-scarpa", correva in paese la voce che era un ufficiale dei servizi segreti, asso della guerra sottomarina. Be', non è che si fosse poi tanto fuori mira. Abitava, questo era sicuro, nella Villa Alexandra, con il figlioletto e la moglie, una graziosa signora. Nelle sue esplorazioni nel Brembo, aveva notato il pericoloso deterioramento dei seicenteschi pilastri. Avvertì il Comune, che provvide. Può darsi che se il pittoresco Ponte dei Frati è tuttora in piedi lo si debba all'affondatore di Alessandretta.
Tratto da “Le trote del Vescov dopo le navi di Winston” - di Bernardino Luiselli – Ed. Annuario 2005 del C.A.I. Alta Valle Brembana.

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Orietta, sua moglie

Nell’inverno del 1943, in Africa settentrionale la VIII Armata britannica avanza dopo aver sconfitto gli italo-tedeschi a El Alamein e la caduta di Tripoli appare ormai inevitabile. Ferraro viene allora designato per compiere azioni di sabotaggio nella sua città adottiva una volta che questa verrà occupata da parte del nemico. Era sconsigliabile poter utilizzare la collaborazione di elementi estranei all’ambiente, che indubbiamente avrebbero richiamato attenzione e sospetti.
Ferraro avanza allora il progetto di poter essere aiutato dalla moglie: loro due vivevano e lavoravano a Tripoli già prima che scoppiasse la guerra, un loro ritorno in città non desterebbe sospetti: lui è stato militarizzato, ma per ordine del Governatore della Colonia continua a svolgere il suo compito di formatore di giovani, tanto è vero che è stato richiamato dal fronte che stava per raggiungere; lei addirittura è una donna, e in Italia le donne stanno a casa, non vanno a combattere in uniforme come le americane e le inglesi.
Comincia cosi a Livorno la trasformazione di Orietta Ferraro, insegnante di educazione fisica, in assaltatore subacqueo.
Camuffata da marinaio è prelevata dalla sua abitazione tutti i giorni, a fine mattinata e accompagnata alla piscina deserta dell'Accademia Navale. Fatica come e più d'un robusto marinaio, si abitua a indossare la calzamaglia e la muta in foglia di gomma, ad avanzare nell' acqua usando le pinne. Presto l'addestramento e l'allenamento continueranno in mare, ore e ore di nuoto sul dorso, anche con simulacri di bauletti esplosivi, senza carica, ovviamente, ma in tutto e per tutto uguali a quelli veri, nella forma e nel peso. Ha meno tempo del marito ma deve raggiungere lo stesso livello di addestramento. Questo per più di 40 giorni e avendo lasciato un figlio di tre anni affidato ai nonni. Ma l’amore di Patria dei Ferraro era questo; il nonno di Orietta aveva combattuto nel 1848 con Daniele Manin per la difesa di Venezia nella Repubblica di San Marco.
Purtroppo la caduta di Tripoli avviene molto prima del previsto per cui è necessario far partire Ferraro urgentemente, quindi senza l’ausilio della moglie che non ha terminato tutto l’addestramento.
Lo stesso Ferraro non può arrivare che a Zarzis (confine libico-tunisino) perché Tripoli viene occupata il giorno prima. (1)

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Luigi e Orietta Ferraro nel giorno del loro matrimonio
Luigi e Orietta Ferraro nel giorno del loro matrimonio


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